VENDUTO
Il quadro sarebbe piaciuto ai parigini del secondo Ottocento, ambiente preso dall’ampia letteratura che risuonava di patetismo nei ricordi di viaggio e alimentava l’idea di una Venezia primo amore. Penso a Théophile Gautier, che vi aveva soggiornato a metà secolo. A parte il resoconto a puntate nella rivista “La Presse”, si era pubblicato postumo il suo Voyage en Italie nel 1876, in cui lo scrittore rinnovava l’esperienza di una città orientalista con l’impressione dell’oro e dei preziosi marmi colorati negli edifici, ma anche quella della desolazione e dell’abbandono in uno spaccato umano che alimentava l’immagine festaiola di un popolo adesso al servizio dei piaceri di un imperatore straniero: un sogno di giovinezza e felicità.
Il richiamo di una città dall’euforia notturna viene anche dall’originalità del nostro quadro, come frutto della luce fioca e della condizione di presenze ben caratterizzate prese dal gioco d’azzardo che si praticava al Ridotto.
Uno dei locali più celebri della Venezia settecentesca, che ci è stato tramandato dall’immagine impastata di Francesco Guardi, o dal divertito sguardo, eppure impietoso, di Pietro Longhi.
I locali di palazzo Dandolo a San Moisè, ad esempio, aperti all’intrattenimento sin dal Sei- cento, furono chiusi nel 1774 per via dell’ambiente oramai giudicato immorale, fra l’altro appena pochi anni dopo il restauro avvenuto nel 1768 su progetto di Bernardino Maccaruz- zi, come ancora vediamo nel dipinto di Gabriel Bella conservato alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia (Fanti e Denari. Sei secoli di giochi d’azzardo, catalogo della mostra [Ve- nezia, Casinò Municipale, 15 gennaio – 28 aprile 1989], a cura di A. Fiorin, Venezia 1989). Forse il ricordo più avvincente di una Venezia libera ma pur sempre sorvegliata, tra vite clandestine, scandali teatrali, risse e nobili corrotti, viene dalle cosiddette referte (ovvero spiate) dei confidenti di Stato, tra i quali nel 1780 è arruolato anche Casanova, a sua volta vittima dei propri vizi, tanto che avrebbe voluto aprire in città un locale per il gioco d’azzardo (P. Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 2016, pp. 524-529).
Proprio dalla filiera d’invenzioni alla Pietro Longhi deriva anche questo nostro interno, quasi a rinnovare lo sguardo indiscreto del pittore che porta alla ribalta la sceneggiata veneziana. Pure le stampe che circolavano – ad esempio l’inquadratura di Alessandro Longhi dal modello paterno che conosciamo dalla derivazione dipinta in palazzo Leoni Montanari a Vicenza (Collezione Banca Intesa-Sanpaolo) – danno l’idea della scrittura istantanea, quale essenza della libertà delle idee e dei piaceri nel costume settecentesco.
L’anonimato della maschera, i personaggi in toga e parrucca che tengono banco non curandosi della folla sgangherata offrono il senso pigro e decadente della vita da nobili che aveva trovato la più congeniale versione nella pittura di Pietro Longhi.
Conosco un’altra versione di questo stesso interno, praticamente identica, che ritroviamo nel passato ormai remoto della collezione Giovanelli di Venezia e poi in quella Gualino di Torino (all’asta Christie’s, Londra, 18 marzo 1960, n. 69), naturalmente attribuita a Pietro Longhi, ma da affiancare alla nostra cercando piuttosto tra gli epigoni del celebre artista (R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, II, a cura di M. Lucco, A. Mariuz, G. Pava- nello e F. Zava, Milano 1995, pp. 393-401).
Persino l’arredo è lo stesso, compreso il bel quadro appeso al centro della parete, tocco di sensualità ben adatta al luogo di ritrovo mondano, trattandosi di un nudo femminile, direi una Flora alla Jacopo Amigoni o Antonio Pellegrini.
Tutto ebbe avvio dagli studi sul Settecento veneziano a inizio del secolo scorso, quando Aldo Ravà, dedicandosi alla monografia su Pietro Longhi (Firenze 1922), riunì una serie di dipinti – ad esempio l’esemplare di Ca’ Rezzonico, di soggetto praticamente identico al nostro – che portò a coniare il nome del Maestro del Ridotto.
Oggi potremmo tentarne l’identificazione in Giuseppe De Gobbis, un artista sul quale viene l’ottimo studio di Francesca Stopper (Giuseppe De Gobbis frescante nella Scuola degli Orefici e Gioiellieri, in “Arte in Friuli Arte a Trieste” AFAT, 31, 2012 [2013], pp. 107-116), che ci permette di riflettere sull’attività del pittore durante gli anni Settanta. Ben adatti anche a soffermarci sull’anno di chiusura del Ridotto di palazzo Dandolo, il 1774, che consideriamo la datazione estrema anche per il nostro dipinto.