VENDUTO
Il 16 febbraio 1734, come si desume dal documento rinvenuto presso l’archivio del monastero
milanese di Santa Maria della Visitazione, vennero annotate delle spese “per il trasporto del
modelletto del quadro che deve servire per l’associazione da Venezia a Milano, e poi da Milano a
Venezia”.
Il successivo 2 giugno, tramite Pietro Albertonio, era saldato il compenso per la pala a Giambattista
Pittoni, all’epoca interpellato dalla confraternita di San Francesco di Sales istituita presso le
Visitandine, alla cui chiesa la grande tela di circa quattro metri per tre sarebbe stata donata quale
ornamento della parete del presbiterio.
Con la solidità dei dati archivistici siamo in grado di prevedere che il pittore veneziano abbia
provveduto al modello da spedire a Milano dai primi giorni dell’anno 1734, circoscrivendo con rara
puntualità la sua datazione.
La scoperta della nostra opera risale al 1951, grazie alla meritevole segnalazione di Edoardo Arslan
nel “Bollettino d’Arte”. L’aveva riconosciuta nella raccolta a villa Compostella di Bovisio, località
della Brianza, con il merito particolare d’inquadrarla correttamente come autografa di Pittoni anziché
di Giambattista Tiepolo, maestro al quale prima era attribuita (1).
Del resto, in quegli anni, era salita la febbre per l’arte del Settecento veneziano, ed erano frequenti le
attenzioni verso i maestri più rinomati, senza particolare riguardo alle distinzioni stilistiche.
Varrà ancora la pena di sottolineare l’importanza del ritrovamento archivistico, dato che ci permette
di valutare concretamente la dinamica produttiva di una tela di grande formato.
Il cliente, generalmente tramite un esperto o un architetto, contattava il pittore per valutarne i vantaggi
in termini di qualità del risultato, prezzo e puntualità nella consegna.
Non era necessario incontrarlo, poiché era sufficiente l’invio delle misure corrette dell’ambiente in
cui doveva collocarsi l’opera. In genere ciò avveniva con degli spaghi della giusta lunghezza, così
non si sbagliava.
In questo modo, Giambattista Pittoni poteva rispondere precisamente, con quanto aveva ideato sulla
base delle istruzioni impartite.
Persino la tela dipinta, qualora realizzata, avrebbe viaggiato arrotolata, per essere montata sul telaio
e incorniciata, talvolta isolata dalla parete da un tavolato per risparmiarla dall’umidità, seguendo
sagge istruzioni che gli artisti avevano ben collaudato con l’esperienza.
La committenza sapeva, in base a puntuali accordi, di dover mettere a disposizione una somma per
compensare l’esecuzione del modello, che sarebbe tornato nella disponibilità del pittore, anche
nell’eventualità di apportarvi qualche variazione. Cosa che sostanzialmente non avvenne, eccetto un
angioletto nel gruppo in alto a destra, che nella pala venne eliminato rispetto al modello.
Al punto da rendere ancora più interessante il nostro dipinto, come aveva intuito Franca Zava: “Nel
caso specifico un confronto con la grande tela chiesastica rende tangibile il grado stilistico, la
dinamica formale e l’incantevole grazia della prima ideazione pittoniana, indubbiamente superiori
alla stesura più liscia ed inerte del quadro maggiore”.
L’ordine della Visitazione era stato fondato agli inizi del Seicento da Francesco di Sales e da Giovanna
Francesca Fréminet de Chantal, che nel quadro appare idealmente in veste di sant’Anna vicino alla
Vergine, mentre le tiene garbatamente la mano.
Dunque è riservata allo sguardo l’allusione alla madre di Maria, nel ruolo che tradizionalmente le
riserva l’impegno a educarla alla fede, proprio come il principale impegno delle Visitandine nella
crescita di nobili fanciulle.
La figura principale, Francesco di Sales, il celebre predicatore vescovo, beatificato e poi canonizzato
nel 1665 da Alessandro VII Chigi, è proteso nell’offrire alle sante donne il sacro cuore di Gesù
infiammato, tra i suoi classici attributi. E’ poi il tripudio di croci a colpirci, ben sette, e così pure le
varie pergamene che attirano l’attenzione degli angeli adulti e più giovani: la disciplina della nuova
regola salesiana.
L’opera avvia la stagione felice di Giambattista Pittoni in Lombardia, che sarebbe durata con la
richiesta di varie opere fino alla metà del XVIII secolo, accompagnando, per certi versi, la parallela
carriera milanese di Giambattista Tiepolo (2).
La composizione, che potremmo considerare una versione manoscritta rispetto a un libro a stampa –
dunque dotata di una indescrivibile carica di autenticità – mostra il mondo intatto della pittura di
Giambattista Pittoni, con la sua insuperata capacità di rasserenare ogni possibile soggetto, sia esso
preso da un richiamo religioso o da una tragica lettura storica.
Del resto l’edonismo della sua maniera era ben chiaro al biografo veneziano che nel 1762 ne
riassumeva il luminoso avanzamento nel Compendio delle vite de’ pittori veneziani istorici più
rinomati del presente secolo: “Si mise ad osservare i più valorosi Pittori, che seco lui fiorivano, e ne
estrasse una maniera da Storico Eccellente; bizzarro ne’suoi vestiti ed ornamenti, che danno sommo
piacere nel contemplar i suoi Quadri”.
Il dipinto, in effetti, è un modello di freschezza d’ispirazione, qualità che già potremmo intuire nel
mondo sanguigno della grafica del maestro (3).
La puntuale allusione nel Compendio, che menziona la speciale inventiva di Giambattista Pittoni,
sembra adattarsi all’impronta con cui il pittore dispone la sua invenzione. Un approccio mai banale,
anzi col piacere della scena.
Oramai si apprestava a ricordare da lontano i primi insegnamenti in famiglia e si affacciava al pieno
secolo, quando il veneziano si mostrò capace di reggere il confronto con i grandi narratori storici,
mantenendo in più l’inconfondibile slancio decorativo.
Una pagina pittorica, dunque, propriamente collegata alla disciplina del coreografo, direi, di chi cioè
ha l’abitudine di risolvere articolati snodi scenici, concentrando nell’ordine delle figure tutta l’energia
inventiva che presuppone la regola della composizione.
Più in generale la capacità di scoprire la finezza, la prontezza e la sensibilità del talento pittorico
moderno, ci porta alle scelte dei quadri inviati dall’esperto Francesco Algarotti alla galleria di
Augusto di Sassonia a Dresda. Per restare ai veneziani, a Piazzetta andavano le attenzioni per le doti
di disegnatore e di buon colorista, ma, a suo dire, meno risolte risultavano le forme; a Pittoni, non a
caso, per la capacità di abbigliare le figure, a Tiepolo per le virtù della macchia.
Eppure, oltre il terreno relativamente più agevole per un pittore di scena, non meno interessante
appare la saldissima sintassi tra figure, che potrebbero sfuggire l’una all’altra se non fossero trattenute
dalla fermezza del loro registro narrativo, seguendo la linea ascensionale che indica magistralmente
la via da seguire.
Una pagina pittorica, dunque, che parrebbe propriamente collegata alla disciplina del decoratore, di
chi cioè ha l’abitudine a risolvere articolati snodi spaziali, concentrandosi nell’ordine dei gruppi
composti. Eppure Giambattista Pittoni – e la cosa appare sempre singolare – raramente si dedicò alla
pittura d’interni.
Invece, proprio per la riconosciuta maestria nelle vibrazioni del colore, nel movimento delle figure
che sembrano perdere fermezza a favore dei preziosismi del tocco, fu tra i primi ad essere interpellato
nell’insegnamento nel nuovo collegio accademico di Venezia.
6 gennaio 1756: “In questa data i Riformatori dello studio di Padova statuirono le norme per il buon
andamento di una vera e propria Accademia, dandone la direzione ad un presidente e a due consiglieri,
che con rescritto del 5 febbraio, scelsero nelle persone de’ più rinomati artisti d’allora: G.B.Tiepolo
come presidente; G.B. Pittoni, pittore e G.M. Morlaiter, scultore, come consiglieri. Questi si
ridussero il 13 febbraio 1755 [more veneto, dunque 1756] nel locale del Consiglio del Fondaco della
Farina di S. Marco in congrega particolare, insieme con altri pittori da loro invitati. Furono questi
Gaspare Diziani, Francesco Zanchi (rappresentanti il Collegio), Francesco Fontebasso, Bortolo
Nazari e Giuseppe Nogari, e tutti insieme si accordarono sulla nomina di 36 pittori e scultori, essi
compresi, per farne l’intero corpo accademico”.
Questo stralcio dalla natura amministrativa offre il riferimento più diretto all’alta considerazione
goduta dal maestro e alla sfera più autentica della sua professione.
Fabrizio Magani
1. Per lo studio del modello, della pala e di varie repliche vale ancora la schedatura di F. Zava Boccazzi, Pittoni. L’opera
completa, Venezia 1979, pp.141-142.
2. A. M. Bianchi, in Settecento lombardo, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi e
Museo della Fabbrica del Duomo, 1 febbraio-28 aprile 1991), a cura di R. Bossaglia e V. Terraroli, Milano
1991, pp.184-188.
3. A. Craievich, in I disegni del Professore. La raccolta di Giuseppe Fiocco della Fondazione Giorgio Cini,
catalogo della mostra – Padova, Musei Civici agli Eremitani, 8 maggio-24 luglio 2005, a cura di G. Pavanello,
Venezia 2005 (alla relativa sezione dedicata a Pittoni).