Sacra Famiglia, Pietro Baratta

Firmato alla base del gruppo: “PIETRO BARATTA”

Splendidamente modellata, questa Sacra Famiglia [I–XII] in terracotta è opera – come certifica la
firma alla base del gruppo – dello scultore di origine toscana Pietro Baratta.1

Al centro è Gesù, ormai fanciullo, che, in piedi, si presenta già come Salvator Mundi, vale a
dire con la mano destra in atto benedicente mentre la sinistra sostiene il globo terracqueo, simbolo della sua sovranità divina sul mondo intero. Alle sue spalle, leggermente arretrate, si stagliano le figure della Vergine e quella imponente di san Giuseppe. Seduta sul bordo di un basso muro (perfettamente leggibile sia sul lato sinistro sia nel retro dell’opera), Maria, il florido volto in parte coperto dal manto, stringe a sé il giovane Figlio con tutte e due le mani, quasi a sottolineare il suo ruolo privilegiato di mediatrice tra l’Umanità e Dio. Sulla destra la composizione si chiude con l’anziano Giuseppe che, a differenza della sua solita posizione marginale, è qui chiamato a presenziare in qualità di coprotagonista. Alto, dal volto asciutto, coi capelli radi e una folta e ondulata barba, egli è raffigurato con la mano destra appoggiata sul petto, in un tipico gesto di umile devozione, ed è accompagnato dal bastone fiorito, il più canonico tra i suoi attributi.

In ottimo stato di conservazione, l’opera, come anticipato, porta incisa, in caratteri capitali, la firma del suo autore. Firma che si ritrova anche sul lato destro di un’altra Sacra Famiglia [1]:
quella scolpita dallo stesso Baratta per l’oratorio di villa Barbaro a Casier (Treviso)2 e di cui la no- stra scultura pare essere il modello preparatorio. Camillo Semenzato, in un fondamentale articolo del 1958, sottolineava, con grande acume critico, come nel gruppo di Casier «lo scultore rivela un senso compositivo ampio e sicuro, ricavato in una spazialità definita, ferma, in cui i rapporti si precisano con logicità e nettezza. Le forme, illuminate da una luce uguale, si inturgidiscono con enfasi barocca, e nel movimento lineare dei solchi in ombra e dei profili illuminati confermano una elegante virtuosità manieristica»3. Una lettura che rispecchia profondamente anche il carattere della nostra terracotta; in essa, anzi, il «senso compositivo ampio e sicuro» e le forme così enfaticamente eleganti sono accentuate dalla fragranza del modellato, dal senso di intimo tepore che promana dal rossore della materia impiegata, in cui, per l’appunto, i volti, gli sguardi e perfino le paffute dita della Vergine e quelle affilate di Giuseppe acquistano un risalto inaspettato e magnetico.

Le differenze che si ravvisano confrontando la scultura di Casier con il modello presentato non fanno che sottolineare la sua autenticità, consentendoci di seguire in parte le riflessioni dell’artista e le soluzioni da lui adottate in corso d’opera. Baratta ha modificato il gioco di gambe e di piedi visibile nello studio plastico inserendo nel marmo una panca coperta da un prezioso tessuto damascato che ospita la Vergine e, al centro, issato sul suo bordo, il piccolo Gesù. Benché sia raffigurato sempre benedicente, il Redentore ha però perso il globo terracqueo: con il braccio e la mano sinistri Gesù si aggrappa all’avambraccio destro del padre, il quale, in questo caso, si presenta con tutte e due le mani incrociate sul petto. Lo scultore ha così amplificato il rapporto umano tra le tre figure, il loro legame familiare. Non per nulla la Santa Famiglia così concepita viene anche definita Trinità Terrena, in rapporto speculare e diretto a quella Celeste, la quale è però composta da Dio Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo.

Interessante, sul piano tecnico e stilistico, notare come nella nostra terracotta la modulazione dei panneggi ideata da Baratta accentui gli effetti chiaroscurali, con un risultato di maggiore vivacità plastica rispetto all’opera finale. Nel marmo, infatti, il toscano ha lavorato di sintesi, cercando via via di raggiungere una maggiore luminosità e chiarezza nelle superfici con una scansione dei piani più netta e una intonazione generale più pacata. Un modus operandi, questo, tipico di Pietro, di quel suo orientamento classicista di matrice centro-italiana a cui rimase sostanzialmente fedele in tutti gli anni della sua attività, non solo veneziana.

Giunto nella Serenissima Repubblica nel 1693, lo scultore, nato nel 1668 a Massa fu dapprima impiegato nella bottega di Francesco Cabianca (1666-1737) per poi passare, dopo pochi mesi, in quella del conterraneo Giovanni Toschini, di cui prese le redini a partire dal 1700 circa.4 Membro di un’importante famiglia di scultori, di cui si ricorda soprattutto il poco più giovane fratello Giovanni, Pietro si presentò nel contesto lagunare già «bene avanzato nell’arte», come informa Tommaso Temanza nel suo Zibaldon5. Dei suoi primi lavori ben poco sappiamo, dato che furono Tommaso Temanza nel suo Zibaldon5. Dei suoi primi lavori ben poco sappiamo, dato che furono presumibilmente realizzati sotto la direzione del più anziano Toschini. Al 1699 risale la prima commissione documentata a noi nota: quella delle sculture per uno degli altari dell’abbazia di Follina, dove oggi si trovano unicamente due Angeli adoranti.

Di lì a breve, però, lo scultore venne ingaggiato per un’opera di maggior prestigio.Vale a dire la memoria dedicata al Doge Silvestro Valier [2], eretta nel 1701, l’anno seguente alla sua scomparsa, nella «pubblica biblioteca [la Libreria Marciana], quasi in simulacro tutelare de’ Genii Literarij», e che da fine Ottocento campeggia in uno degli ambienti dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.6 Fu così che Baratta, mediante un’opera destinata a uno dei luoghi più simbolici di Vene- zia, voluta direttamente dal Senato marciano, raggiunse una certa notorietà, la quale, in poco tempo, si consolidò grazie anche alla sua partecipazione a una delle maggiori imprese di tutto il Settecento vento: il Monumento Valier [3] nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo.7 Accanto a Giovanni Bonazza, Marino Groppelli e Antonio Tarsia, Baratta contribuì a creare quel grandioso deposito, che, come ha ben sottolineato più volte Monica De Vincenti, sancisce l’imporsi in laguna del linguaggio classicista, ovvero di «una sensibilità riformatrice avversa alle bizzarrie barocche». Allo scultore toscano spettano il ritratto a figura intera del Doge Silvestro Valier [4], l’allegoria dell’Eloquenza o Felicità Pubblica [5] e i rilievi con la Carità [6] e l’Umiltà [7] – opere, le ultime tre, firmate e siglate dall’artista.

Via via Pietro venne chiamato a fornire suoi lavori per le chiese dell’intera Dominante, tra cui spiccano, oltre laSacra Famiglia dell’Oratorio di Ca’ Barbaro a Casier, le statue dell’Annunciazione già nella chiesa veneziana di Santa Lucia, e oggi conservate a Mestrino, e la decorazione plastica dell’altar maggiore del duomo di Gorizia. Nel 1712, invece, gli venne commissionato, su suggerimento dell’altarista isontino Giovanni Pacassi, il gruppo della Pietà con le Marie dolenti e gli Angioletti con i simboli della Passione [8] per la Kapuzinerkirche di Vienna.

Dalla metà degli anni dieci fino al 1727, data del suo rientro definitivo a Carrara, Baratta venne ripetutamente ingaggiato, insieme ad altri rinomati artisti, dai Manin, famiglia friulana appartenente alla cosiddetta “nobiltà di Candia”, ovvero quell’insieme di nobili iscritti al Libro d’Oro del patriziato veneziano dopo l’esborso alla Repubblica dell’ingente somma di 100.000 ducati. Per i monumenti da essi voluti e pagati nel presbiterio della cattedrale di Udine, il maestro toscano scolpì
la statua della Nobiltà [9] e il gruppo con le personificazioni della Pace e della Giustizia [10].8 Sempre per i Manin, ma questa volta a Venezia, ai Gesuiti, Baratta realizzò per la facciata della chiesa la statua di San Pietro [11] e, al suo interno, la decorazione plastica dell’altare dedicato a Sant’Ignazio di Loyola [12].

Accanto a opere di carattere prettamente chiesastico, Baratta si dedicò anche alla realizzazione di sculture riservate a soddisfare le richieste del collezionismo privato, tanto veneziano quanto europeo9. A tal proposito, egli fu tra gli artisti interpellati dal conte Savva Raguzinskij, su mandato dello zar di Russia Pietro il Grande, per fornire statue e busti destinati ad arricchire i giardini e i parchi delle residenze imperiali di Pietroburgo. Allo stesso modo, l’artista partecipò con quattro sue sculture anche all’arredo del giardino del palazzo di Augusto II il Forte, re di Polonia, a Dresda; statue, queste ultime, andate purtroppo disperse e che conosciamo solo attraverso incisioni. Si tratta di commissioni, l’una e l’altra, di indubbia importanza e che certificano da parte di Baratta il raggiungimento, grazie alla centralità di Venezia nel panorama artistico internazionale, di un ruolo di primissimo piano. Un ruolo che gli fu ufficialmente riconosciuto anche dalla sua nomina quale «Scultore della Moscova», con l’incarico – a cui si dedicò fino alla morte, avvenuta nel 1729 a Carrara – di educare i giovani artisti russi inviatigli dallo Zar in Italia.

Nonostante dalle ricerche d’archivio non sia ancora emerso alcun documento riguardante i termini della commissione a Baratta della Sacra Famiglia di Casier, sappiamo con certezza che furono i Giustiniani a interpellare lo scultore toscano per realizzare il gruppo. Infatti la chiesetta in cui esso è conservato, dedicata a Santa Maria della Concezione, venne costruita nel secondo decennio del XVIII secolo, vale a dire quando l’intero complesso della villa apparteneva per l’appunto ai Giustiniani, famiglia che ne divenne proprietaria verso il 1645 e che, infine, nell’ultimo decennio del Settecento, la vendette ai Barbaro, nome a cui ancor’oggi la residenza e l’oratorio sono associati.10 Si può ipotizzare, quindi, che i Giustiniani richiesero all’artista di firmare tanto il modelletto preparatorio in terracotta quanto la scultura in marmo finale. Una richiesta comprensibile se si pensa che Baratta, come si è visto, era in quel momento «tra i più quotati scultori del primo quarto del Settecento a Venezia»11 e aveva lavorato per alcune delle famiglie di maggior prestigio della Serenissima Repubblica.
Il corpus delle terrecotte riconosciute dalla critica allo scultore toscano è a tutt’oggi assai esiguo12, pertanto la Sacra Famiglia qui presentata acquista un valore non indifferente.

A Venezia, nel Museo del Settecento Veneziano di Ca’ Rezzonico, si trova il modello preparatorio [13] per la figura del Doge Silvestro Valier realizzata dal toscano per il
Monumento Valier ai Santi Giovanni e Paolo13. Mutila nella parte inferiore, la terracotta presenta ancora tracce della policromia e della doratura originali. Anche in questo caso, lo studio in creta è caratterizzato da una ricerca degli effetti plastici che nel marmo sono stati poi attenuati, come si nota soprattutto nella mano sinistra che nella terracotta affonda le sue dita nel morbido damasco.

Più vicino alla nostra Sacra Famiglia è sicuramente lo studio [14] realizzato da Baratta per la Pietà [15] oggi nella cappella dell’Istituto Canal–Marovich di Venezia, ma in origine collocato su un altare della chiesa lagunare, non più esistente, di Santa Lucia.14 Conservata nel Museum of Fine Arts di Boston, la terracotta per la Pietà veneziana si presenta magnificamente eseguita, con un livello di finitezza molto simile a quello dell’opera qui studiata e un’indubbia consonanza nel modo in cui sono condotti i panneggi e usate le stecche dentate per definire da una parte la roccia e dall’altra il basamento.
L’ultimo bozzetto noto è la Galatea [16] del De Young Memorial Museum di San Francisco. Si tratta del modello preparatorio per il marmo [17] dello stesso soggetto oggi al Victoria and Albert Museum di Londra e probabilmente realizzato da Baratta per la
collezione Manin.15

Accanto alle opere brevemente ricordate, la Sacra Famiglia qui discussa, per l’alta
qualità che la contraddistingue, non fa che confermare la grande capacità di modellare l’argilla riconosciuta a Baratta già nei primi anni del suo apprendistato presso Francesco Cabianca, quando, rinchiuso in una stanza solo e senza alcun aiuto, realizzò in creta un san Bartolomeo scorticato in maniera tale che il veneziano «ne restò contento».16

Maichol Clemente

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1 Un profilo sintetico sullo scultore è offerto dalla voce biografica compilata da M. Klemenčič, in La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, repertorio fotografico a cura di A. Bacchi, Milano 2000, pp. 690-692. Per una comprensione più approfondita della personalità di Baratta e del suo ruolo in ambito veneziano si rinvia comunque a C. Semenzato, Lo scultore Pietro Baratta, “Critica d’Arte”, 25-26, 1958, pp. 150-168; Id., La scultura veneta del Seicento e del Settecento, Venezia 1966, pp. 31-32, 94-95; M. De Grassi, Pietro Baratta per le corti del Nord, “Arte Veneta”, 51, 1997, pp. 51-61; S. Guerriero, Giovanni Toschini e gli esordi veneziani di Pietro Baratta, “Venezia Arti”, 13, 1999, pp. 41-50.
2 C. Semenzato, Lo scultore Pietro…, cit., p. 155 (fig. 100, p. 153).
3 Ibidem.
4 Cfr. S. Guerriero, Giovanni Toschini e…, cit.
5 T. Temanza, Zibaldon [1738], a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963, pp. 72-74.
6 Cfr., con bibliografia precedente, M. De Vincenti, ‘Piacere ai dotti e ai migliori’. Scultori classicisti del primo ‘700, in La scultura veneta del Seicento e del Settecento. Nuovi studi, a cura di G. Pavanello, Venezia 2002, p. 228.
7 Il più aggiornato e preciso resoconto sulle vicende di questo magnifico deposito è quello di M. De Vincenti, Il “prodigioso” mausoleo dei dogi Valier ai Santi Giovanni e Paolo, “Arte Veneta”, 68, 2011 (2012), pp. 143-163.
8 Cfr. M. De Vincenti, Sui monumenti Manin del duomo di Udine, “Venezia Arti”, 11, 1997, pp. 61-68.
9 A tal proposito M. De Grassi, Pietro Baratta per…, cit.
10 Vedi S. Chiovaro, in Ville venete: la Provincia di Treviso, a cura di S. Chiovaro, Venezia 2001, p. 87, cat. TV 083.
11 Così H. Honour, Baratta, Pietro, in Dizionario Biografico degli italiani, V, Roma 1963, pp. 793-794.
12 A tal proposito vanno escluse dal catalogo delle terrecotte di Baratta quelle recentemente attribuitegli in A taste for sculpture V, Trento 2018, catt. 11-12, pp. 72-83. Nella scheda, stranamente, non si prendono in esame le opere in creta ad oggi note dello scultore, le quali, infatti, presentano un modellato e una forza plastica assai distante da quella dispiegata in quelle due sculture.
13 Vedi M. De Vincenti, ‘Piacere ai dotti…, cit., p. 228, n. 28.
14 S. Guerriero, in I tesori della fede. Oreficeria e scultura dalle chiese di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, chiesa di San Barnaba, 10 marzo – 30 luglio 2000), a cura di A. Augusti, Venezia 2000, cat. 52, pp. 112-114.
15 Cfr. M. De Vincenti, ‘Piacere ai dotti…, cit., p. 228, n. 28.
16 Episodio, questo, ricordato da Tommaso Temanza, Zibaldon…, cit.