Pirro e Demetrio, Antonio Pellegrini

Voce autorevole quella di Antonio Pellegrini, avviata a larghissima fama europea sin dagli esordi, con registri di stile che stupiscono per idee, soluzioni di grandi partiti decorativi e adesione piena all’esuberanza rococò.
E’ l’autore del dipinto, che fa il paio, per via dello stile graffiante e le pressoché identiche misure, con l’Incontro con la regina di cui tempo fa abbiamo parlato1.
Il soggetto, invece, non è semplice da districare. La scena si svolge in un accampamento: le armi, le insegne non lasciano dubbi. La principale figura, assisa, ne indica perentoriamente un’altra, che potrebbe essere un re arresosi, poiché sembra di vedere la sua corona a terra. Appena un guizzo dorato del pennello.
Intorno c’è agitazione, come se Pellegrini volesse mettere in gioco quanto più affascina di quella storia animata da passione.
Perciò lo sguardo è tenuto in stato di costante mobilitazione, dentro a quel luogo improvvisato frutto dell’illusione, ed è precisamente la concezione teatrale dell’azione a chiedere di essere vissuta o addirittura recitata, quasi fosse un’opera in musica di Scarlatti o Händel. Insomma una visione integrata del teatro dipinto con cui possiamo figurarci il futuro di successo dell’artista.
Potremmo pensare all’incontro di Alessandro e Poro, un tema che fu caro ad Antonio Pellegrini per averlo più volte replicato.
Stiamo seguendo la storia della battaglia dell’Idaspe, nei luoghi dell’antica India, il regno di Poro, che oppone resistenza all’avanzata del macedone.
Alessandro vuole vincere la tenacia del valoroso nemico, che viene colpito scivolando dall’elefante. Questo episodio pose fine alla battaglia, dato che Alessandro, credendo il rivale morto, ordinò ai suoi uomini di spogliarne il corpo. Alcuni accorsero a togliergli la corazza e la veste, ma l’animale incominciò a proteggere il padrone e ad assalire coloro che tentavano di spogliarlo; sollevò il corpo con la proboscide e lo pose nuovamente sul suo dorso.
Alessandro, commosso, risparmiò la vita a Poro che, alla domanda su come volesse essere trattato, rispose “da re”.
La situazione potrebbe adattarsi alla scena del quadro, ma si deve osservare l’assenza dell’elefante, che in genere accompagna il soggetto principale.
Un’altra possibilità potrebbe venire dal burrascoso incontro tra Achille ed Agamennone durante la guerra di Troia.
Il guerriero chiede al re di liberare la schiava Criseide, poiché il suo rapimento aveva irritato Apollo che aveva mandato la peste tra i greci.
Allora Agamennone chiede in cambio un’altra schiava, nel caso anche quella di Achille, il quale, preso da un attacco d’ira minaccia il suo re, fino al punto da colpirlo se non fosse intervenuta la dea Atena a trattenerlo.
La tentazione più forte, però, viene dai personaggi Pirro, re dell’Epiro, e Demetrio, re di Macedonia.
Questi è salito al trono dopo aver ucciso Alessandro e vuole quindi invadere l’Asia, ma Pirro riesce a scacciarlo.
Antonio Pellegrini con Marco Ricci, nipote del grande pittore Sebastiano, erano in società da tempo e perciò li troviamo impegnati a Londra proprio nelle scenografie per il Pirro e Demetrio nella primavera del 1709. L’opera era in cartello al Queen’s Theatre di Haymarket.
Doveva essere davvero sorprendente prendere parte a quegli spettacoli affastellati di trucchi scenografici, in cui la professionalità degli interpreti molto spesso sfuggiva di mano cantando e recitando in lingue diverse, com’era capitato proprio nell’opera di Alessandro Scarlatti.
Creature viventi e cose si animavano, respiravano insieme trovando nel movimento, nella luce, nel suono altrettanti elementi capaci di proiettarli nello spazio oltre il limite sensoriale della forma, lasciando stupefatti.
Questo genere di messa in scena coi suoi effetti speciali, quella irrequieta e pittoresca felicità che veniva naturalmente dalla sensibilità italiana, pareva trovare nell’estro di Pellegrini una felice consonanza, che ci piacerebbe valesse anche per la finalità teatrale di questo nostro modello. Charles Montagu, conte di Manchester, durante la visita diplomatica a Venezia di poco più di un anno, dal giugno 1707, incoraggiò l’artista a partire per Londra, il primo viaggio che portò il maestro a cimentarsi nella scenografia teatrale, nell’affresco, nei dipinti a soggetto storico e pure nel ritratto.
Antonio Pellegrini non poteva immaginare ancora che sarebbe stato capace di conquistare tante città d’Europa nel suo girovagare, eroe dello stile rococò che seppe giocare con la propria abilità e con suprema sprezzatura; qui la troviamo pronta non tanto nella poesia intima, che ci aspetteremmo da un piccolo dipinto, quanto nelle libere pennellate – inconfondibili – con cui godiamo del privilegio di riassumere una maniera che, da soda e pittorica agli inizi, arriva alla libertà della stesura.
A questa prima esperienza inglese, come ci ha insegnato George Knox2, vogliamo far risalire il quadro, quale saggio dei circuiti altolocati in cui entrò subito Pellegrini: Burlington House a Piccadilly, Montagu House in Arlington Street, Portland House in St. James Square, e le residenze di campagna, Castle Howard nello Yorkshire e Castle Kimbolton nello Huntingdonshire.
Antonio e Angela Pellegrini, sorella della rinomata pittrice Rosalba, arrivarono a Londra alla fine del 1708; il soggiorno durò circa quattro anni, quando nell’estate del 1713 si diressero alla volta di Düsseldorf.
Tutto era cominciato nell’estate del 1702, quando Pellegrini aveva ultimato il soffitto affrescato nella biblioteca al convento del Santo di Padova.
L’artista ha meno di trent’anni e, per la felicità dell’invenzione, l’opera può gareggiare con la cappella dipinta da Sebastiano Ricci nella vicina chiesa di Santa Giustina, fra l’altro nella città d’origine della famiglia Pellegrini.
I due artisti sembrano accomunati dal coraggio di viaggiare: Sebastiano Ricci ha già lavorato a Bologna, Parma, Piacenza, Milano e Roma, mentre Antonio Pellegrini, giovanissimo, segue il maestro lombardo Paolo Pagani a Vienna e in Moravia tra il 1690 e il 1696, acquisendo il bagaglio tecnico che lo prepara all’affresco.
Non fa a tempo di andare per un anno a Roma a migliorare la sua esperienza, che Vincenzo Coronelli, da generale dell’Ordine, lo manda a lavorare nel convento padovano. L’influente frate mentre pubblica la sua Biblioteca del sapere universale cerca un pittore che sappia interpretare convenientemente quei simboli in una delle più qualificate biblioteche dell’epoca.
Nel gennaio 1704, Pellegrini aveva sposato Angela, abbiamo detto sorella di Rosalba Carriera, con la quale la famiglia si tenne sempre stretta e, anche se i due pittori erano distanti, certamente l’uno sostenne l’altro soprattutto con le relazioni internazionali.
L’esordio alla corte di Düsseldorf, per Pellegrini era stato folgorante, poiché si erano intuite nel pittore quelle doti di veloce applicazione unita al buon gusto nella rapidità con cui aveva ultimato in pochi giorni il San Sebastiano curato da Irene (Würzburg, Staatsgalerie) presentato a Johann Wilhelm von der Pfalz come saggio dimostrativo.
Morendo due anni dopo, il principe non godette a lungo delle successive grandi decorazioni ultimate nel 1714, che in sé rappresentano uno dei capitoli fondamentali dell’operosità dei maestri veneziani in Germania.
Antonio Pellegrini, subito dopo la morte dell’elettore palatino si recò ad Anversa e poi all’Aia. Più avanti a Parigi e a Dresda.
Alla fine, quando i Pellegrini rientrarono a Venezia nel 1721, affittarono una nuova abitazione al nobile Vincenzo Pisani in Campo Santo Stefano. Bella posizione che valeva centosettantaquattro ducati all’anno, mentre in precedenza ne pagavano novanta a Lodovico Widmann nel più appartato quartiere di Santa Maria Mater Domini.
Tutto bene verrebbe da dire; nell’aggiornamento di Pietro Guarienti all’Abecedario pittorico, 1753, dunque circa dodici anni dopo la morte di Pellegrini, c’è un chiaro riferimento alle “facoltà raccolte … premio di sue virtuose fatiche” durante i lunghi viaggi in Germania, Francia ed Inghilterra, e così pure alla sua collezione di quadri venduti più tardi da Angela Carriera all’inglese Joseph Smith.
Vi erano i famosi dipinti di Vermeer, la Donna alla spinetta, e di Rubens, Eneas, e un’altra strada presero le quattro vedute giovanili del Canaletto che, da sole, provavano uno di quei rari riconoscimenti dei meriti reciproci tra artisti contemporanei.
In questo caso l’interesse verso i primi risultati di una riconosciuta promessa.

Bibliografia:

1. Bozzetti, modelli e piccoli dipinti del Sei e Settecento veneto, a cura di F. Magani, Padova 2008, pp.22-25.
2. G. Knox, Antonio Pellegrini 1675-1741, Oxford 1995.